Tornai ancora a percorrere quel reticolo di strade,
e mi parve di non averle mai abbandonate.
Stavano acquattate tra una selva di condomini popolari;
vecchie strade da imboccare,
vecchie strade senza uscita.
D'altronde ho vissuto il fiore dei miei anni
in una casetta posta su una strada senza uscita,
ed è come se questo avesse, in qualche modo,
minato la possibilità di arrivare da qualche parte.
Voglio dire:
l'inizio della stradina è quasi invitante,
una piccola chiesetta bianca,
posta tra infinite casette anonime,
regala una piccola emozione, la promessa di un nuovo inizio
il miraggio di nuovi orizzonti.
Ma una volta entrati,
la strada si mostra subito stretta
vecchia e squallida.
Tornare indietro è difficile,
puoi solo andare avanti, e una volta arrivato in fondo
scopri l'amara sorpresa:
un muro di cemento delimita una vasta area, cotta dal sole
dove foreste di dormotori popolari,
come gli anneriti moncherini di un incendio,
sembrano sorreggere un cielo malato e denso.
Oltre non c'è altro,
non c'è più terra
nè orizzonte
solo grida improvvise e cani che latrano.
Riesco a scorgere il profilo di vecchie ciminiere,
tra cui sfrecciano improvvisate statali
che incombono sui giochi dei bimbi,
che corrono tra rifiuti e siringhe.
Mi domando cosa abbiamo fatto tutti noi di sbagliato,
mi domando dove sia questa gioia di vivere.
Poggio lo sguardo su quella leggera sfumatura, quella
che divide la notte dalle montagne, e penso:
"vorrei essere l'assù."
Ma il tempo è come piombo fuso sulle lancette di un orologio,
non ci sono rubini a indicare il mezzodì,
non c'è l'oro a incorniciare la magrezza di questi attimi.
Un giorno una pazza alcoolizzata mi disse:
"ma se il mondo gira,
com'è che noi invece restiamo sempre fermi,
sempre al solito punto,
e non giriamo anche noi
assieme al mondo?"
Ecco vedete,
io non avrei saputo spiegarlo meglio.
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