martedì 10 febbraio 2015

COME CONOBBI LUCIO

Non ricordo l'anno; non lo ricordo mai.
Quel che ricordo è che, forse colto da un improvviso raptus di follia, iniziai a lavorare per una cooperativa che aveva appena vinto un importante appalto per conto della multinazionale francese del bricolage "Leroy Merlyn", la quale, intenzionata ad aumentare i punti vendita in tutta Europa, avrebbe aperto un nuovo ed enorme negozio presso l'altrettanto nuovo ed enorme -gargantuesco- centro commerciale "I Gigli" (il più grande del centro Italia).
Per quella modesta cooperativa, così piccola e anonima da non ricordarne neppure il nome, assicurarsi i lavori di costruzione del negozio deve essere stata una fortuna sfacciata e del tutto imprevista, dato che si lanciarono da subito, con palese frenesia e inesperienza, in una veloce e risolutiva campagna di assunzioni a tutto campo.
Dati i tempi ristretti (i lavori sarebbero presto dovuti cominciare), non andarono molto per il sottile riguardo la scelta del personale, limitandosi ad assumere qualsiasi persona della città disposta, in cambio di un risicato stipendio, a raggiungere il tanto ingrato e misteriosamente ambito posto di bestia da soma. Furono reclutati a centinaia; alcuni italiani (a parte quelli, come appresi in seguito, assunti in precedenza direttamente dalla Leroy Merlin come futuri commessi e magazzinieri, e che di fatto ci dicevano cosa fare), ma la maggior parte della forza lavoro fu garantita da persone di origine extracomunitaria, molte delle quali senza permesso di soggiorno o comunque appena arrivata nel paese. I pochi italiani assunti erano tipi truci, non più giovani (io ero il pischello della comitiva, imberbe e senza nessuna esperienza), sovente con tatuaggi consumati sulle braccia e misteriose croci, di un blu sbiadito, scolpite tra il pollice e l'indice della mano, dai volti severi, barbuti e sempre vagamente sporchi.
Oltre a questi italiani di dubbia reputazione, la restante truppa consisteva in una massa indistinta di africani e slavi. Ci raggruppammo subito in branco, com'è nella natura umana, tra persone della stessa etnia o lingua. Raramente un gruppo interagiva con l'altro: il lavoro era tanto e duro e perennemente in ritardo sui tempi, tanto da toglierci qualsiasi voglia di socializzare. Io, insieme a una squadra di lavoro sorprendentemente eterogenea, fui assegnato al reparto falegnameria. Il lavoro consisteva nel trasformare un enorme rettangolo di nudo cemento grigio in un multicolore e rutilante emporio del fai da te. Fin dall'inizio fu evidente che nessuno di noi aveva la capacità, o anche solo la voglia, di portare a termine un lavoro di tale portata- faticavamo in modo esasperato su ogni inezia, spesso rompendo attrezzi e materiali, e i lavori da completare. anziche' diminuire, aumentavano come il livello dei fiumi dopo un temporale. Fin dai primi giorni riuscii, non so come, a diventare il favorito di Pierre, un dirigente francese della multinazionale. Come già detto, ero giovane e pimpante, in forma, lavoravo bene e con impegno; mi davo da fare ed ero, agli occhi del dirigente - e come in effetti era- assolutamente estraneo ai discorsi di corridoio, che aleggiavano per giorni e giorni tra i reparti in costruzione, riguardanti, quasi sempre, storie di vendette da perpetuare su particolari gruppi etnici, o sacri giuramenti rivolti all'altissimo riguardo la ferma intenzione di portare a termine, quando meno ce lo saremmo aspettati, tragiche ed inevitabili vendette... anche i furtivi scambi di merce, che avvenivano di continuo tra italiani e magrebini e tra magrebini e subsahariani, mi erano del tutto estranei. Era come vivere in una specie di circo antropologico.
Presto si instaurarono delle gerarchie ben precise:
I pezzi grossi della Leroy Merlin si degnavano di rivolgere la parola solo a quegli italiani precedentemente assunti come quadri, i quali, a loro volta, impartivano le direttive solo agli italiani della cooperativa, presumibilmente ritenendoli i soli in grado di capire le istruzioni date; era curioso notare come qualsiasi inetto, solo perchè italiano (anche se "ufficiosamente" investito del potere) si affrettasse ad assurgere al ruolo di kapò, nonostante risultasse ignorante riguardo il lavoro da svolgere quanto tutti gli altri, talmente incompetente e arrogante da risultare, oltre che inutile, addirittura controproducente. Gli extracomunitari, dal canto loro, oltre a passare la maggior parte del tempo a litigare per ogni inezia e fomentare rivolte verso altri reparti, dove un diverso -e odiato- gruppo etnico lavorava, bisogna ammetterlo, avevano una comprensione della lingua italiana così scarsa che era pressoche impossibile anche solo fargli capire cosa montare e dove montarlo. Spiace dirlo, ma di tutte queste persone, anche quelle con cui ho diviso molte ore di lavoro, e che magari avevo trovato anche divertenti o interessanti, non ho alcuna memoria -facce, nomi, vite difficili trascorse in paesi oscuri e lontani, una fetta del mio passato evaporata come neve al sole. Alcune di queste persone le vedevi solo per qualche giorno; lavoravano poco e spesso controvoglia, comunque sempre a ritmo di tartaruga, e poi sparivano, altre, le più integraliste, o si facevano cacciare perchè invischiate in faide di tale violenza e crudeltà da rimanere mutilati -feriti da lanci di martelli o bucati da chiacciaviti usati a mo' di coltello- o partivano improvvisamente, diretti in Africa, giusto il tempo -come dicevano- di assistere la giovane moglie, la quarta, sposata poco prima di partire, e già in procinto di partorire il di lui sedicesimo figlio, per poi tornare e riprendere il lavoro; naturalmente si sapeva già che non le avremmo riviste mai più. Furono una presenza vacua, indistinta, una chiazza nera che ti passava gli attrezzi, spesso sbagliandoli grossolanamente, e ti faceva compagnia nei lunghi pomeriggi, quando proprio non avevi voglia di lavorare, e anche una preghiera rivolta ad Allah era vista come un interessante diversivo.
Gli italiani, per lo meno, davano una certa garanzia di stabilità e continuità. Al reparto falegnameria, oltre me, assegnarono un altro italiano: Lucio.
Fin dai primi giorni di lavoro iniziammo a cooperare proficuamente, trovando da subito un accordo di massima sulle modalità di sfruttamento della manodopera di negri assegnatici. Non è vero; sto scherzando.
Uno dei motivi per cui Pierre andava fiero dei lavori in falegnameria, era che da noi non si litigava quasi mai anzi, ci si aiutava, ci rispettavamo e il lavoro, di conseguenza, filava spedito e senza incidenti. Per Lucio provai da subito una forte simpatia; somigliava straordinariamente a Bruno Lauzi, gli stessi occhioni tondi, celesti e umidi di bontà, le turgide labbra ingioiellate da una corona di baffetti radi, di un grigio topo, lo stesso che colorava l'arruffata e folta capigliatura, e dalla stessa costituzione, bassa e tozza. Avevo l'incondizionata fiducia di Pierre (ancora oggi, infatti, chi visita il reparto falegnameria della Leroy Merlin potrà trovare, caso unico nel negozio, gli stessi allestimenti di tanti anni fa, tali e quali a come li avevo concepiti e realizzati); parlava direttamente con me, senza intermediari. La sua infaticabile mente partoriva un'idea dietro l'altra e io, basandomi solo su vaghe indicazioni o improvvise illuminazioni, provvedevo a trasformarle in realtà. Prendeva in seria considerazione i miei suggerimenti e, con la consueta collaborazione di Lucio, portavo a termine, sempre con risultati più che egregi, ogni lavoro che ci assegnava, L'ora che ci spettava per il pranzo la consumavo, come di consuetudine, nella vuota sacca di un tetto ancora in fase di costruzione; andavo fin lassù in cerca di tranquillità e solitudine, ma quella volta, seduto su una pila di bancali, ci trovai Lucio. Nell'addentare il mio panino da una fetta e mezza di mortadella, miseramente accompagnato dalla solita bottiglietta di acqua, non potei fare a meno di fissarlo:
aveva la faccia curiosamente infilata in una vaschetta di alluminio, di quelle che si comprano ancora calde al supermercato, intento a divorare tre quarti di pollo arrosto, talmente marrone e croccante da far girare la testa; piccoli filamenti di carne bianchiccia penzolavano dal mento unto di grasso saporito...mi avvicinai. Notai subito che, invece della consueta bottiglia d'acqua in dotazione, beveva da una contenitore celato da un sacchetto di carta marrone -ogni due o tre morsi voraci afferrava il sacchetto e lo avvicinava alle labbra, succhiando rumorosamente un liquido che intuii essere vino, quindi, con rozza naturalezza, si ripuliva il muso col dorso della mano sporca e, dopo una serie di brevi ma intensi rutti, si tuffava di nuovo sul pollo. Appena mi vide, ancora con una coscia vaporosa in mano, ammantata da una molle e penzolante pellicina, si spostò un poco e mi fece posto accanto a lui; la sua faccia si allargò in un sorriso di complicità e, con allegra indifferenza, mi offrì un sorso di vino:
accettai e mi sedetti a parlare; mi disse che era di Verona, che il suo vero lavoro era restauratore di violini, e che abitava alla stazione.
Credetti che abitare alla stazione, fosse un modo di dire che abitava nei pressi della stazione e non, come appresi in seguito, dentro la stazione (pensavo, forse ingannato dal ricco pranzo che si era concesso, che alloggiasse semplicemente in una stanza presa in affitto vicino la stazione). Dopo quel fortuito incontro, cominciammo a pranzare sempre insieme, sempre da soli, su quel tetto che pian piano assumeva le giuste forme, e sempre in compagnia di una bottiglia di vino.
I giorni intanto passavano, e la considerazione che avevo di me stesso crebbe in maniera esponenziale, di pari passo con l'avanzare dei lavori, e Pierre, oltre ad apprezzare il mio impegno, cominciò anche a provare una sorta di affetto paterno nei miei confronti (credo mi giudicasse l'unico degno di attenzione). A volte, quando mi incrociava lungo uno dei corridoi, si fermava meditabondo, le mani agganciate ai fianchi, a osservare e valutare un lavoro appena finito e, sempre complimentandosi per la mia inesauribile bravura nel trasformare ogni lavoro in una piccola opera d'arte, si lasciava andare ad allusioni del tipo:
"molto bravissimo, bene bene... non ti preocupè, a te ci penso io, ti volio con me", chiaro indizio che intendeva assumermi, strappandomi così dalle grinfie della cooperativa, direttamente alla Leroy Merlin, nel ruolo, supponevo, di commesso del reparto falegnameria. Tutto questo era gratificante. I ragazzi che erano già stati assunti, quelli che all'inizio mi dicevano cosa fare, erano quasi tutti laureati, mentre io non avevo neanche finito il liceo; pensare di essere arrivato al loro livello solo dopo pochi mesi di lavoro, mesi in cui ho dato comunque prova delle mie qualità, non poteva che rendermi felice e soddisfatto. Svolazzavo da un reparto all'altro come un divo del cinema, godendomi il momento, il mio momento, sicurissimo come ero di aver fatto colpo anche sulle ragazze -le future commesse e segretarie- facendole innamorare di me come delle ragazzine ingenue, così giovani, belle, dal seno sodo e prorompente, dolci e profumate come pesche. Poi un giorno, al reparto falegnameria fu assegnato un magrebino. pescato da quel serbatoio di bassa manovalanza da cui ancora si attingeva in caso di estremo bisogno; Lucio, come tutti gli altri italiani, era già stato congedato, e con loro la quasi totalità degli operai...io ero l'unico della cooperativa ancora impiegato nel negozio, oltre quelli, come già detto, fatti arrivare in fretta e furia, per due o tre giorni, a finire un lavoro urgente e pesante.
Un giorno stavo percorrendo un corridoio secondario quando notai, poggiato su uno scaffale in alto, un pacchetto di sigarette "Diana rosse": erano la stessa marca di sigarette che fumavo anche io.
Senza pensarci più di tanto, lo presi e me lo infilai in tasca, compreso l'accendino che trovai adagiato sopra.
Dopo pochi minuti mi vedo arrivare incontro il magrebino tappa buchi, coprendo la distanza che ci separava a grandi falcate:
"Hai visto mie sigarete?" disse senza tanti preamboli.
Lo guardai con espressione di finta sorpresa..."le tue sigarette?...Io non le ho viste...di che marca erano?"
"Diana rosse" rispose lui, "erano pogiate lì sopra...prima c'èrano e ora non ci sono più...anche acendino sparito." Non so perchè mi comportai così, forse per arroganza, forse perchè mi ritenevo effettivamente superiore a lui, o forse perchè ero così sicuro della mia posizione (e della protezione di Pierre) da sentirmi in diritto di liquidarlo bruscamente:
"No, non le ho viste...scusami ma adesso ho proprio da fare, se vuoi scusarmi..."
Il giorno seguente, già dimenticato il fatto delle sigarette (di sicuro lo avevo dimenticato io) il magrebino mi si avvicinò indifferente...cominciò a raccontarmi fatti della sua vita privata; mi confidò quali capi trovava antipatici e quali, invece, più comprensivi, e tutto nel suo modo di fare era studiato per accattivarsi la mia simpatia...misero me. Quella che ritenevo complicità tra umili operai, si rilevò invece essere l'inizio del mio declino alla Leroy Merlin.
Quel pomeriggio, infatti, trovai un cellulare, largo e pesante, tozzo, con uno sportellino che si apriva davanti per poter parlare e un'antenna lunga e spessa come il mignolo di una mano. Oggi può sembrare un pezzo da museo, ma all'epoca era il top in fatto di telefonia, un modello costoso, che solo i "capoccia" potevano permettersi...anche in questo caso, senza pensarci due volte, lo presi e me lo infilai in tasca. Ero così contento che friggevo dalla voglia di raccontarlo a qualcuno, e chi meglio del nuovo e intimo amico magrebino a cui raccontarlo?
Lui mi disse di spengerlo subito, e di non confidare la cosa a nessun'altro..."non dire queste cose così, stai atento e non fidare di nessuno..."
Feci come mi suggerì e, con un sorrisetto maligno stampato in faccia, mi avviai verso i distributori automatici del caffè. Stavo lì da neanche due minuti quando arrivò Pierre che, con malcelata indifferenza chiese ai presenti se "per caso" qualcuno aveva trovato un cellulare. Tutti quanti, me compreso, scossero la testa in segno di diniego poi, prima di congedarsi, Pierre mi lanciò un'ultima significativa occhiata..."neanche tu?"
Compresi che Pierre sapeva già tutto, sapeva benissimo che il cellulare lo avevo trovato io, e che aveva anche voluto darmi una seconda possibilità di redenzione, ma nonostante tutto continuai inspiegabilmente a negare...il compagno operaio, fratello nella lotta al potere capitalista, si era infine vendicato della storia delle sigarette, trascinandomi in quelle chiacchere di corridoio che tanto accuratamente avevo cercato di evitare...in fondo non sono così diverso da tutti gli altri, pensai, mentre un senso di inevitabile rassegnazione si impadroniva di me. Fu la fine. Pierre mi convocò nel suo ufficio e, sinceramente deluso, mi licenziò su due piedi.
Ed è così che una multinazionale multimilionaria perse la possibilità di assumere il commesso più bravo e competente che poteva capitargli tra le mani...mi scordai di tutto, dei cellulari, delle ragazze, di Pierre e di Lucio, e i nomi delle decine di piccoli bambini che aspettavano l'invio di soldi da un paese di fango col tetto di paglia.

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