Nel 1999, non so come, decisi di fare il "Camino di Santiago di Compostela".
A quei tempi le mie decisioni arrivavano improvvise, come un fortunale in alto mare, e comunque era un posto come tanti altri dove "andare"; ero un vagabondo fiero, solitario e selvaggio, e da qualche parte bisognava pure che andassi, visto che in questo mondo disgraziato esisto anche io, e qualche metro quadrato di terra devo, mio malgrado, occuparlo.
Partii un po intimorito, ma alla fine arrivai incredulo e soddisfatto.
Gli spagnoli dicono che si va a Santiago per tre motivi:
per pregare, per chiedere, per espiare.
Questi motivi io li avevo tutti e tre. Così partii senza sapere cosa mi aspettava, ma deciso ad arrivare fino in fondo. L'anno dopo volli ripeterlo, per potermi soffermare più a lungo nei luoghi carichi di storia e d'arte che avevo attraversato in fretta; qualche tappa del cammino infatti, per motivo di tempo, la feci a bordo dei più disparati autobus che incrociavo diretti nella stessa direzione.
Grave disattenzione da parte mia: intravedere impavidi pellegrini affaticati sotto il peso degli zaini e arrostiti dal sole implacabile della Castiglia, mentre osservavo il tutto attraverso opachi e bisunti finestrini, comodamente seduto e carezzato dall'aria condizionata, non è certo da me, ma esami impellenti vietavano che godessi appieno della cosa.
Il camino è indiscutibilmente l'occasione di vivere una vera avventura, unica e affascinante, inspiegabile a chi non l'ha fatta;
è un insieme di vissuti e di emozioni che si aggrovigliano nell'animo così intimamente e intensamente da non poterne parlare. Non è solo la soddisfazione di fuggire dal rumore e dall'agitazione della città, nè visitare mille paesini misteriosi e sconosciuti, incontrare gente di tutto il mondo o misurarsi col proprio fisico e difficoltà più o meno insolite.
E' soprattutto un lungo viaggio all'interno di noi stessi per capire dove si va, per fare il punto della "navigazione" (obbiettivi raggiunti) e per un confronto serio con quell'interlocutore interiore che alcuni chiamamo Coscienza, e che altri chiamano "quello l'assù".
Chi torna da uno di questi viaggi, raramente racconta un'esperienza così personale, essenzialmente per non essere frainteso, e cerca, anche,di mostrare meno fotografie possibili (sempre che le abbia fatte).
Le persone sgranano gli occhi quando vengono a sapere che in 28 giorni ho percorso 856 chilometri, tutti a piedi; neanche si sognano di capire che il lato più duro e bello è averli fatti in completa solitudine.
Per 268 ore di cammino sono stato completamente solo con me stesso, ho pensato, ricordato, meditato, gioito, sofferto e pregato (si, l'ho fatto). Un lungo e genuino rifornimento per lo spirito; oasi nel deserto di un anno pieno di attività, nelle quali rischiavo di vivere solo in superfice e di inaridirmi come un sughero.
Col senno di "poi", posso dire che il viaggio l'ho fatto essenzialmente per arrivare a Capo Finisterre, dove, fino alla scoperta dell'America nel 1492, si pensava finisse il mondo.
Quel promontorio che cade a picco su un oceano immenso, flagellato da venti e tempeste (sotto la croce del faro è scritto: "el mar de la muerte"), rappresenta fisicamente quello che nell'immaginario collettivo è il limite estremo cui giunge l'essere umano nel suo andare.
Vivere significa anche camminare, cercare.
Si può girare il mondo in più maniere: come turisti, curiosando qua e là; o come viaggiatori, per conoscere e incontrare, alla ricerca del perchè, del dopo e dell'umana avventura.
Viaggiando, inevitabilmente si incontrano dei limiti, che sul "Camino" sono fiumi, monti, boschi, stanchezza e paura; nella vita invece ci son ben altri ostacoli. Alcuni limiti possono e devono essere superati; uno invece, quello ultimo, è invalicabile.
Invalicabile più di Capo Finisterre, dove ogni sera un sole infuocato si getta dietro un orizzonte infinito, c'è la solita domanda, che anche i nostri avi, sull'alto di quel promontorio, hanno sempre fatto:
tutto ha un fine, o c'è anche un "oltre"?
I non religiosi, quelli che non finiscono il viaggio sazi della benedizione dello spirito santo, continuano a peregrinare, fino a un ideale Capo Finisterre dove l'oceano ferma ogni andare. Qualcuno impreca per non poter più proseguire, altri si incupiscono per mancanza di certezze, ma i più accettano quel limite invalicabile e si danno da fare per gustare appieno quanto hanno trovato fin lì.
Chi di loro ha ragione?
Oggi sorrido a questa domanda giovanile; ho chiaro che ciò che più conta è cercare, che solo la pigrizia mentale, l'ignavia, il vizio di non coltivare curiosità spirituali, non posso tollerare.
Ognuno di noi deve curiosare, andare, cercare, scoprire, soffrire e gioire per conto proprio, come tanti Ulisse alla ricerca della propria terra.
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